«A volte penso che la difficoltà dell’uomo di oggi, di accettare Dio, la religione, l’eternità, nasca proprio dalla superficialità con cui si avvicina al Natale; c’è la festa, la commozione, non sempre c’è l’adorazione di un Dio che è diventato veramente come noi»

di Padre Luciano Lotti

La riflessione sul nostro futuro dopo la morte, certamente, è un tema che spinge a pensare, inoltre porta con sé il vuoto lasciato dalle persone care che ci hanno già preceduto e anche quel clima di mestizia che spesso caratterizza il mese di novembre. E se invece fosse proprio il Natale a parlarci dell’eternità? Mi rendo conto che mettere insieme il mese dei morti e la venuta di Gesù è un po’ un ibrido; in realtà, però, riflettere sull’eternità non è poi una cosa tanto meschina, anzi, quando meditavano sulla morte, i santi sentivano il loro cuore riempirsi di gioia.

La stessa liturgia chiude il suo ciclo nel mese di novembre con la solennità di Cristo Re, e – sempre in questo mese – si avvia verso il Natale, proponendo un cammino di ascolto della Parola e austerità, quasi a voler collegare in un solo sguardo il passato e il futuro.

Proviamo a coniugare la risurrezione di Gesù e il nostro passaggio verso l’eternità, con l’evento della sua venuta nel mondo: ciò che alla fine sarà definitivo è completo, è già tutto presente qui, adesso, proprio perché Dio si è fatto uomo e ha compiuto quel misterioso scambio spesso celebrato nella liturgia: il Figlio di Dio prende la nostra umanità, per consegnarci la sua divinità; entra nel tempo, per aprirci all’eterno.

A volte penso che la difficoltà dell’uomo di oggi, di accettare Dio, la religione, l’eternità, nasca proprio dalla superficialità con cui si avvicina al Natale; c’è la festa, la commozione, non sempre c’è l’adorazione di un Dio che è diventato veramente come noi.

In una lettera di auguri a padre Benedetto del 19 dicembre 1912, Padre Pio scrive così: «Il dolcissimo Gesù centuplichi in questi giorni le sue divine consolazioni su di voi e vi dia quella forza di superare sempre tutte le insidie del comune nemico e quella scienza ancora soprannaturale per poter santamente guidare per la via del cielo non tanto quelli affidati dalla provvidenza, ma quanto ancora quelli che a voi ricorrono» (Epist. I, p. 325).

L’augurio che il discepolo fa al maestro è non solo che Gesù Bambino possa essere fonte di consolazione e di forza contro le insidie del nemico, ma che lo renda una guida capace di guidare le anime all’eternità. Il Natale si compie proprio in questa direzione: l’Incarnazione segna una trasformazione della persona, diventiamo figli nel Figlio; la missione di Padre Benedetto (e possiamo dire di ciascuno di noi) è aiutare gli uomini a contemplare nel Natale l’apertura di una strada che li porta a raggiungere il cielo.

Due anni dopo (19 dicembre 1914), in una lettera augurale scritta a sempre a padre Benedetto in occasione del Natale, Padre Pio ribadirà questo concetto: «Gesù Bambino riempia l’anima vostra di tutti quei carismi che voi desiderate per le altrui anime». (Epist. I, p. 516)

Inteso in questo modo il Natale ci rende ricchi e missionari di vita eterna; si tratta di una prospettiva importante proprio in questo tempo in cui la vita è concepita come l’insieme di mille segmenti, alcuni segnati dal dolore, altri dalla gioia, ma per la maggior parte come segmenti fatti di attesa, di speranza, di paura: una vita caratterizzata da quelle che possiamo definire situazioni di passaggio, siamo sempre in attesa di qualcosa.

Il luogo entro in quale si svolge tutto questo è il corpo dell’uomo che sembra trasformato in un’arena dove tutti vogliono fare il loro spettacolo: il corpo è oggetto di passioni sfrenate, sfruttato da chi lo vuole rendere sempre perfetto a suon di botulino e interventi chirurgici, è sfruttato sessualmente e col lavoro. Il corpo è il luogo dei nostri fraintendimenti emotivi e psicologici, è spesso emblema della violenza e della sopraffazione delle guerre, delle mafie, delle ingiustizie e delle droghe.

Vorrei citare qui alcuni versi di un testo laico, una poesia sulle donne iraniane (ricordiamo le contestazioni di questi mesi), scritto da Franco Arminio: «… Prima o poi le ragazze iraniane abbatteranno il potere con le loro ciglia, coi loro corpi felici perché sanno amare».

Non credo di profanare il Natale se accosto la storia dolorosa di queste donne con quella di Gesù: in entrambi casi, al centro abbiamo un corpo che sa amare. È vero, non sempre la parola amore ha un significato univoco, ma sempre, soprattutto quando si parla di una donna, al centro c’è il dono, quello di sé e quello della vita, che si porta dentro.

Nella nostra cultura edonistica, guardiamo con terrore alla morte, perché è il momento del disfacimento del corpo, perché non sappiamo andare oltre gli aspetti biologici e comprendere quello che il corpo veramente significa. Il corpo è il luogo di un’esistenza che non ha fine, il corpo è la persona, il corpo è la storia di tutti noi. Proprio l’immagine della donna che fa dono di sé stessa, ci parla dell’immortalità del corpo, perché i suoi gesti, la vita che dona, la sua oblazione hanno qualcosa di eterno.

Gesù è venuto a dare un nome a questa eternità, gli ha dato il suo volto e la sua stessa vita. Quando parliamo di eternità non parliamo più di qualcosa di astratto o di un regno delle ombre come nella cultura romana, ma di un incontro di una comunione con Dio che ci rende eterni.

Padre Pio ci chiede di guardare alla bellezza e alla santità del nostro corpo, come all’annuncio costante di questa comunione; poco importa se il corpo è segnato dalle rughe, se gli occhi sono spenti o se gli altri non ci stimano per quello che siamo: il nostro corpo è bello e santo perché è il luogo del sorriso di Dio sulla storia dell’umanità.