Sulla croce, il male è stato già vinto, perché ora il perdono non è più impossibile!

di Michele Illiceto

docente di filosofia, Facoltà Teologica Pugliese

 

La croce non è solo il simbolo religioso più importante del cristianesimo, ma è anche una sfida al pensiero che si trova a dover pensare l’impensabile, il negativo, l’assoluto negativo come la “morte di Dio”. La croce deve fare i conti col peccato che ha inchiodato l’uomo alla propria colpa, alla propria fragilità, alla sua incapacità di fare il bene, a causa del fatto che non solo si è separato da Dio ma anche da sé stesso.

Essa tenta di unire, in modo paradossale, il finito con l’infinito, l’immutabile e la storia, il relativo e l’Assoluto, l’umano e il divino, il tempo e l’eterno, la libertà e la grazia, l’amore col dolore, superando la forza del male che, dividendo e lacerando, provoca nella libertà un cortocircuito che la pone contro sé medesima.

La croce, hegelianamente parlando, è il travaglio del negativo, quel “venerdì santo speculativo”, a cui Dio si è sottoposto per attraversare il male fino al suo punto più estremo, per superarlo. Morendo, crocifigge il pensiero che lo nega, costringendolo a superarsi, per non fermarsi al dato empirico di ciò che è solo evidente.

Spogliandosi sulla croce, Cristo spoglia il pensiero che lo spoglia, riabilitandolo a pensare Dio come il Senso primo ed ultimo, inafferrabile e indispensabile, senza il quale la morte avrebbe l’ultima parola. Come ha detto Sergio Quinzio, è solo annullandosi che Dio annulla il nulla che lo annulla!

Perciò, chi nega Dio, sulla croce trova negata la propria negazione, perché qui, il pensiero è liberato dalla propria assolutezza e restituito alla propria finitezza, e non per disperarsi, ma per aprirsi e trascendersi. Come è accaduto al centurione, la croce non la si capisce con i soli ragionamenti. Davanti a essa, come ha detto Kierkegaard, prima bisogna credere e poi comprendere.

Sulla croce, Dio abita la negazione, negandola, non però semplicemente opponendosi, ma assumendola dal di dentro. Con un gesto di inaspettato e insperato amore, l’attraversa per trasfigurarla in una feconda gestazione, dove la vita di nuovo torna ad essere la luce degli uomini, come dice Giovanni nel Prologo: “In Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4).

Sulla croce, chi si ferma solo al dolore e non vede, dietro esso e in esso, l’amore che lo motiva e lo giustifica, non ha capito niente né della croce né del cristianesimo. E il perché dell’amore si perde nella notte delle domande non poste, come anche Platone ci ha dimostrato nel suo Simposio.

Gesù rivela un amore più grande del dolore che gli è stato arrecato. “Un amore più grande della colpa” (H. Urs Von Balthasar), perfino del male ricevuto. E il male più grande, che Egli sperimenta, è il non poter usufruire della onnipotenza divina. Infatti, sulla croce Cristo è abbandonato dal Padre. Ma Egli, al Padre che lo abbandona, risponde con un gesto ancora più grande: quello di abbandonarsi al Padre per amore di tutti coloro ai quali il Padre lo ha inviato.

Egli vince l’abbandono con un altro tipo di abbandono. Si lascia abbandonare, senza tuttavia abbandonare. Non abbandona il Padre che lo abbandona, ma si abbandona al Padre, consegnandosi a Lui, con quell’amore che lo unisce a Lui in una comunione che il male non ha il potere di lacerare.  Infatti, se il male ha diviso l’uomo da Dio e da sé stesso, tuttavia non ha il potere di dividere Dio da Dio, Dio in Dio. Sulla croce, il male è stato già vinto, perché ora il perdono non è più impossibile!

Ma non si vince il male evitandolo, ma solo assumendolo, fino a subirlo, facendosi carico di esso. E il male più grande, per Cristo sulla croce, è stato provare l’assenza di Dio. Come dice Hegel, Cristo sperimenta la durezza dell’assenza di Dio solo per amore dell’uomo. Egli si cala nella separazione che l’uomo ha provocato tra sé e Dio, e per questo rinuncia, per un attimo, al sentimento filiale di sentirsi gioiosamente amato dal Padre. È questa la sua angoscia maggiore descritta dai vangeli, il suo tormento, che tuttavia non gli fa smettere né di amare né di credere.

E questo perché, l’amore in cui Egli crede è più grande del dolore che Egli prova. Per questo, pur nella debolezza del suo morire, Egli riesce a leggere la potenza di un amore che, anche se non sentito, viene comunque creduto. Sentirsi abbandonato non significa, infatti, credere di esserlo davvero. Sulla croce, la fede non supera solo la ragione, ma anche il sentimento e il cuore, attraversando il terreno arido del deserto delle emozioni, fino a diventare una profonda esperienza spirituale.

Ecco la lezione del crocifisso: credere all’amore anche se non lo provi. Anche quando non senti di essere amato! Don Tonino Bello soleva dire: “Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell’egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell’altro, e scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione”.

Ma sulla croce Gesù cambia anche il modo di intendere il potere. L’onnipotenza della croce non è quella della forza e del dominio, che con la violenza cambia il corso della storia, facendo pagare agli altri il prezzo del cambiamento che si vuole apportare. Egli è il Giusto che con la mitezza vince la stupidità dei violenti, nella consapevolezza che, come dice Don Primo Mazzolari, “Chi uccide un giusto, perché contrario alle sue opere, feconda il bene che non può sopportare”.

L’unica onnipotenza della croce è solo quella dell’amore, che patisce i tempi lunghi del bene, il quale, per crescere, ha bisogno di lunghe stagioni di seminagione e di gestazione, secondo la logica del chicco di grano che, caduto in terra, non porta frutto se prima non muore (Gv 12,24). Una onnipotenza che, spoglia di sé stessa, disarma, con la debolezza di un amore incompreso, l’ottusa presunzione di chi invece pensa di aver capito tutto. Quando si parla della croce non si tratta di impotenza né di onni-potenza, ma solo di deponenza.

Insomma, la croce, filosoficamente parlando, ci consegna un Assoluto che non è al riparo dal dolore e dalla lacerazione. Non è un Assoluto indifferente alla fragile condizione dell’essere umano, sempre esposto al fluire del tempo e alla caducità della fine e della morte.

Come ha insegnato Hegel, l’Assoluto, per essere vero, deve superare ciò che lo nega. Ma per essere tale, l’Assoluto si deve dare nella forma dell’Amore, in quanto solo esso è in grado di disarmare il male, proprio nel mentre lo subisce. Si, perché l’amore è già resurrezione! Tutto ciò lo troviamo nelle ultime parole che Gesù dice sulla croce, parole di infinito e incommensurabile amore: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Solo allora può dire che “Tutto è compiuto”.

Pertanto, nell’ora nona del Gòlgota, la più buia e dolorosa della storia, l’ultima parola che ci viene consegnata, non è una parola di odio e di violenza, ma di rappacificazione, che sa unire, in un mistero PASQUALE insondabile, dolore e amore, e che oltre al dono, sa farsi ancor più perdono.

Non una parola di morte, ma una parola che libera la vita dalla cappa dell’angoscia e della disperazione. Una parola di speranza che sa di futuro, come quello di chi, dalla propria morte, dopo essere rinato lui, è pronto a far rinascere tutto ciò che è intorno a lui, nella convinzione che, come diceva don Tonino Bello, “il dolore alimenta l’economia sommersa della grazia […] la sofferenza tiene spiritualmente in piedi il mondo”.

La Chiesa, che nasce dalla croce e sulla croce, dal canto suo è chiamata a vivere questa logica di deponenza, che è logica di servizio e di donazione. Logica di spoliazione, per disarmare, da disarmati, ogni forma di prevaricazione e di sopraffazione, e porsi accanto a chi, ancora oggi, viene crocifisso ogni volta che è calpestato nella sua irrinunciabile dignità di uomo e di donna.  Chiesa del grembiule che non tende a vincere, ma a perdere, non a conquistare ma a liberare. “Lavorare in perdita; soffrire in perdita; morire in perdita: stupidità che il nostro mondo non capisce, né scusa, né tollera” (Don Primo Mazzolari).

Profeticamente, scriveva don Tonino Bello: “Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi”.

Aveva ragione, allora, il teologo protestante J. Moltmann, che, nella sua opera degli inizi degli anni Settanta, dal titolo Il Dio crocifisso, sosteneva che “La teologia cristiana non può non confrontarsi con il grido del proprio tempo e contemporaneamente ululare con i lupi che detengono il potere. Essa deve sintonizzarsi con il grido che i miseri, dal profondo della sofferenza di questo tempo, innalzano verso Dio e verso la libertà. La teologia cristiana sarà vera teologia contemporanea quando si assocerà alla passione della nostra epoca” (ediz. Queriniana, 1973, p. 181).

 

📷 L’Adorazione della Croce nella Cappella Maggiore di Casa Sollievo della Sofferenza (foto di repertorio)